Soltanto ora comincio a comprendere,
in queste notti, seduto a fare rime,
la forma e la misura di quel vasto
Dio che chiamiamo Poesia, che s’inchina
e salta attraverso cerchi di carta
ogni volta più in alto.
Mi piace pensare che diventerò
un grillo canterino o una cavalletta
che fa prodigiosi salti in aria
mentre le folle sbalordite, intorno,
mi fissano, e io canto, sempre più audace
fino a volare sulla spalla del mio padrone
frusciando tra i suoi folti capelli.
Più vecchio dei mari
più antico di pianure e colline
ancestrale come la luce che svasa
dalle ruote bollenti del sole.
Scuote la tempesta che strappa gli alberi
canta sopra i davanzali.
Ti ruggisce contro, oppure tuba,
grida e urla quando l’inferno scotta
cavalcando il suo guscio, spara.
Ti abbatte e ti soccorre
dove lo cerchi, non c’è.
Oggi, ad esempio, ha due teste
come Giano – calmo, benevolo, esatto;
e poi cruento, crudo: la barba dilaga
da parte a parte: dio smisurato
che spadroneggia su ogni ora;
stringe gli amanti nel bacio
sottrae il sole al temporale
tuono e odio gli appartengono
egli è il sì, è il no.
La barba nera mi parla, ha detto
“Benché l’uomo sia fragile
grida, schiocca la frusta, sii forte!
Infine, ti obbediranno:
collina e campo, fiume e palude
ti obbediranno, capriole e salti
al terrore della tua frusta
s’inchinano sotto il fragore della tua rabbia”.
La barba pallida mi parla, ha detto
“Vero: un premio si approssima
ma canta e ridi e corri ignaro
nel triangolo d’aria della pianura
tuffati nelle mie acque, bevi il mio sole
definisci con parole nude le mie creature;
ti verranno dietro
piene di grazia, senza dubbio né dolore”.
Parlò, infine, la sua doppia testa
il glorioso mostro terrificante
“Io sono il sì e il no
nero come la pece – bianco come la neve
amami – odiami – ricongiungimi
odio nell’amore – perfetto nella viltà
giustizia equanime è fatta
vita condivisa tra luna e sole
la natura ti maledice – ti sorride
dacché sei poeta, figlio mio”.